giovedì 11 febbraio 2016

E poi c'è Effe...

E poi c'è Effe. Com'è possibile che io non abbia ancora parlato di Effe?! E' vero, forse ogni parola risulterebbe inadeguata, troppa per eccesso e per difetto al contempo, perché credo non rientri in nessuna categoria definibile di individui. Non so come faccia, ma la sua forza è una di quelle poche, rarissime realtà che continuano a meravigliarti anche quando le hai nitidamente davanti agli occhi: la vedi, la percepisci, ne realizzi la portata, ma, per quanto tu possa averne innumerevoli prove concrete, non riesci ugualmente a contenerne la grandezza.

Se Effe non fosse una persona, sono convinta che sarebbe due cose, due cose allo stesso tempo. Sì, perché lui allo stesso tempo sa essere tutto: sarebbe senza ombra di dubbio un'onda del mare, non un'onda qualsiasi, ma proprio quella più refrattaria alla resa, quella che sbatte contro lo stesso scoglio impervio almeno cinquemila volte al giorno, ma che per altre cinquemilauno volte ci riprova, ci riprova e ci riprova, con tenacia sempre maggiore. E poi Effe sarebbe un sole... no, non un sole, il sole!

Certo, di sole ce n'è uno, e so che non è Effe, ma lui splende di una luce fioca, lenta, delicata, che, tuttavia, quando vuole, sa anche essere abbagliante, fulgente, a tal punto che un sorriso potrebbe improvvisamente piombarti sul viso e squarciartene la malinconia persino dopo secoli di buio!

...In verità, Effe non è nulla di tutto ciò, perché Effe è Effe, e non potrebbe essere altro: è uno dei doni più belli che io abbia mai ricevuto. Sì, credo che potremmo accordargli questo appellativo: è un dono. Ed io mi sento la persona più fortunata della Terra, perché l'ho conosciuto, ed ora è nel mio cuore, nella mia anima, e dovunque ci sia un posticino caldo, puro, autentico in fondo a tutte quelle piccole parti di me che in pochi hanno visto, esplorato, o, soprattutto, sentito.

E con i suoi abbracci, i suoi occhioni neri, grandi, falsamente forti ma fragili come le ali di una farfalla, le sue parole soppesate ma sempre al punto giusto, il suo essere accanto a me ogni giorno, tutti quegli spazietti impercettibili li sento un po' riempiti, come se ad ogni dose di dolore nella mia anima corrispondesse una piccola dose di serenità, quella che non sai spiegare a parole, perché ti scalda il cuore, ti fa piangere d'emozione... ti regala vita vera.

Sì, forse oggi sono una persona troppo "esposta" e vulnerabile, ma coltivo nel cuore un grande desiderio: vorrei che Effe stesse bene, vorrei che l'ipocrisia e tutto il male del mondo si dimenticassero della sua esistenza, perché, in meno di vent'anni, se ne sono già ricordati abbastanza. Lui merita il bene, merita il bello, merita amore... E, in fondo, credo che adesso, dovunque sia, Effe stia vivendo e riflettendo amore. Perché non è altro che amore la sostanza di cui è composta la sua anima. Lo credo con tutte le mie forze.

Da sempre e per sempre con te

M. C.

martedì 9 febbraio 2016

La missione eternatrice della poesia

L’aspirazione all’eternità, da sempre insita nel cuore dell’uomo, non può essere considerata esclusivamente una finalità letteraria relegata ad un unico e preciso momento storico: si tratta, infatti, di un sentimento puro che va oltre il tempo, e quindi in grado di accomunare le sensibilità di uomini vissuti in epoche differenti e spesso distanti tra loro.
Un esempio lampante è costituito dalla concezione della poesia condivisa da due tra i più grandi poeti della letteratura italiana: Ugo Foscolo e Giuseppe Ungaretti. Il primo, visse durante la facinorosa epoca della Rivoluzione francese; il secondo, affrontò la dolorosa esperienza del Grande Conflitto.


Ugo Foscolo: Dei sepolcri

Per quanto riguarda la sensibilità poetica di Foscolo, fondamentale è la nascita a Zante: essa determina la sua formazione classica, arricchita dalla presenza del Romanticismo. Ma il Classicismo di Foscolo è soprattutto  un culto istintivo che questi nutre verso l’armonia e la perfezione. Da ciò scaturisce la profonda sofferenza per i valori che non può vedere realizzati nella sua epoca - a causa della delusione politica in seguito al Trattato di Campoformio, con cui Napoleone cedeva la Repubblica di Venezia all’Austria. La più grande consolazione per il poeta diverrà, così, la poesia: solo la bellezza dell’arte può permettere di superare i contrasti interiori e allontanare l’uomo dalla violenza.

L'apoteosi della poesia come mezzo di immortalità è contenuta nel testo dedicato ai luoghi dei morti. La quarta e ultima sezione (vv. 213-295) del carme Dei Sepolcri, infatti, è dedicata al potere eternante legato alla poesia e alle muse che la ispirano, facendo da custodi dei sepolcri, animandoli di un canto che «vince di mille secoli il silenzio» (v. 234):

"Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio".

Il poeta si sente chiamato a celebrare le virtù presenti e antiche con la sua poesia, che assume il compito di conservarne il ricordo anche dopo che i loro segni materiali sono stati dispersi dal tempo. Come esempio di questa concezione, Foscolo inserisce un riferimento al mondo classico: viene esaltato il nobile compito di Omero, che attraverso il suo canto ha reso immortale nella memoria la storia di Troia.
La poesia diviene così momento essenziale nell’attribuzione di senso alle vicende terrene: in questo modo, Foscolo fonda una sorta di religione umanistica, che ribadisce la sacralità della funzione poetica.

"[...] Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finchè il Sole
risplenderà su le sciagure umane".


Giuseppe Ungaretti: In Memoria, (Il porto sepolto) 

La personalità poetica di Ungaretti risulta assai diversa rispetto a quella di Foscolo, ma, per alcuni versi, ad essa complementare. Egli frequenta gli ambienti delle avanguardie primo-novecentesche, e a Parigi ha modo di approfondire la conoscenza della poesia decadente e simbolista, da Baudelaire a Mallarmè, l’autore di cui, più di ogni altro, si sente l’erede. Per Ungaretti il poeta è una sorta di “sacerdote”, che, attraverso la fulgurazione - l’attimo -, può scendere nella parte più intima dell’uomo e scoprire qualche piccola verità sul mistero della vita. Da qui il titolo della sua prima raccolta di poesie, Il porto sepolto: esso equivale «al segreto della poesia, nascosto nel fondo di un “abisso” nel quale il poeta deve immergersi».
Così come la parte finale dei Sepolcri di Foscolo, anche nel componimento ungarettiano In Memoria emerge a gran voce il tema della funzione eternatrice della poesia: Moammed Sceab ha cercato nella Francia una nuova patria, ma senza trovarla veramente. Precipitando in un’irrimediabile condizione di solitudine esistenziale, egli intravede nel suicidio l’unica soluzione possibile al dolore. Ma la sua morte è tutt’altro che definitiva…:

Locvizza, il 30 settembre 1916.

"Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse".

Il suicidio dell’amico racchiude in qualche modo il destino stesso del poeta, trattandosi di un’analoga ricerca di valori che trova difficoltà a concretizzarsi. Tuttavia, se da un lato Moammed sceglie la via del suicidio, dall’altro Ungaretti si affida alla poesia, in grado di sollecitare la commossa pietà del ricordo. Ed ecco che la poesia assume nuovamente la funzione di estrema custode della memoria: attraverso la scrittura, l’esistenza terrena di Moammed Sceab viene “trasfigurata” e resa eterna dall’ "illuminazione dell’istante di realtà" tipica della scrittura ungarettiana.

M. C.