lunedì 28 marzo 2016

Tu sei

Esistono verità così vere,
silenzi così eloquenti,
presenze così radicate
in questa nostra vita,
che altro non è che la Tua vita donata,
tali da essere inconsciamente
svalutati dalla mente umana,
trasposti in arcani desideri obliati dell'anima.
Celati, riposti, taciturni, ma autentici.
Sei Tu, Signore mio,
pane dello spirito,
significato ultimo dei miei giorni,
matrice unica della pienezza,
sale della mia esistenza.

M. C.

giovedì 11 febbraio 2016

E poi c'è Effe...

E poi c'è Effe. Com'è possibile che io non abbia ancora parlato di Effe?! E' vero, forse ogni parola risulterebbe inadeguata, troppa per eccesso e per difetto al contempo, perché credo non rientri in nessuna categoria definibile di individui. Non so come faccia, ma la sua forza è una di quelle poche, rarissime realtà che continuano a meravigliarti anche quando le hai nitidamente davanti agli occhi: la vedi, la percepisci, ne realizzi la portata, ma, per quanto tu possa averne innumerevoli prove concrete, non riesci ugualmente a contenerne la grandezza.

Se Effe non fosse una persona, sono convinta che sarebbe due cose, due cose allo stesso tempo. Sì, perché lui allo stesso tempo sa essere tutto: sarebbe senza ombra di dubbio un'onda del mare, non un'onda qualsiasi, ma proprio quella più refrattaria alla resa, quella che sbatte contro lo stesso scoglio impervio almeno cinquemila volte al giorno, ma che per altre cinquemilauno volte ci riprova, ci riprova e ci riprova, con tenacia sempre maggiore. E poi Effe sarebbe un sole... no, non un sole, il sole!

Certo, di sole ce n'è uno, e so che non è Effe, ma lui splende di una luce fioca, lenta, delicata, che, tuttavia, quando vuole, sa anche essere abbagliante, fulgente, a tal punto che un sorriso potrebbe improvvisamente piombarti sul viso e squarciartene la malinconia persino dopo secoli di buio!

...In verità, Effe non è nulla di tutto ciò, perché Effe è Effe, e non potrebbe essere altro: è uno dei doni più belli che io abbia mai ricevuto. Sì, credo che potremmo accordargli questo appellativo: è un dono. Ed io mi sento la persona più fortunata della Terra, perché l'ho conosciuto, ed ora è nel mio cuore, nella mia anima, e dovunque ci sia un posticino caldo, puro, autentico in fondo a tutte quelle piccole parti di me che in pochi hanno visto, esplorato, o, soprattutto, sentito.

E con i suoi abbracci, i suoi occhioni neri, grandi, falsamente forti ma fragili come le ali di una farfalla, le sue parole soppesate ma sempre al punto giusto, il suo essere accanto a me ogni giorno, tutti quegli spazietti impercettibili li sento un po' riempiti, come se ad ogni dose di dolore nella mia anima corrispondesse una piccola dose di serenità, quella che non sai spiegare a parole, perché ti scalda il cuore, ti fa piangere d'emozione... ti regala vita vera.

Sì, forse oggi sono una persona troppo "esposta" e vulnerabile, ma coltivo nel cuore un grande desiderio: vorrei che Effe stesse bene, vorrei che l'ipocrisia e tutto il male del mondo si dimenticassero della sua esistenza, perché, in meno di vent'anni, se ne sono già ricordati abbastanza. Lui merita il bene, merita il bello, merita amore... E, in fondo, credo che adesso, dovunque sia, Effe stia vivendo e riflettendo amore. Perché non è altro che amore la sostanza di cui è composta la sua anima. Lo credo con tutte le mie forze.

Da sempre e per sempre con te

M. C.

martedì 9 febbraio 2016

La missione eternatrice della poesia

L’aspirazione all’eternità, da sempre insita nel cuore dell’uomo, non può essere considerata esclusivamente una finalità letteraria relegata ad un unico e preciso momento storico: si tratta, infatti, di un sentimento puro che va oltre il tempo, e quindi in grado di accomunare le sensibilità di uomini vissuti in epoche differenti e spesso distanti tra loro.
Un esempio lampante è costituito dalla concezione della poesia condivisa da due tra i più grandi poeti della letteratura italiana: Ugo Foscolo e Giuseppe Ungaretti. Il primo, visse durante la facinorosa epoca della Rivoluzione francese; il secondo, affrontò la dolorosa esperienza del Grande Conflitto.


Ugo Foscolo: Dei sepolcri

Per quanto riguarda la sensibilità poetica di Foscolo, fondamentale è la nascita a Zante: essa determina la sua formazione classica, arricchita dalla presenza del Romanticismo. Ma il Classicismo di Foscolo è soprattutto  un culto istintivo che questi nutre verso l’armonia e la perfezione. Da ciò scaturisce la profonda sofferenza per i valori che non può vedere realizzati nella sua epoca - a causa della delusione politica in seguito al Trattato di Campoformio, con cui Napoleone cedeva la Repubblica di Venezia all’Austria. La più grande consolazione per il poeta diverrà, così, la poesia: solo la bellezza dell’arte può permettere di superare i contrasti interiori e allontanare l’uomo dalla violenza.

L'apoteosi della poesia come mezzo di immortalità è contenuta nel testo dedicato ai luoghi dei morti. La quarta e ultima sezione (vv. 213-295) del carme Dei Sepolcri, infatti, è dedicata al potere eternante legato alla poesia e alle muse che la ispirano, facendo da custodi dei sepolcri, animandoli di un canto che «vince di mille secoli il silenzio» (v. 234):

"Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio".

Il poeta si sente chiamato a celebrare le virtù presenti e antiche con la sua poesia, che assume il compito di conservarne il ricordo anche dopo che i loro segni materiali sono stati dispersi dal tempo. Come esempio di questa concezione, Foscolo inserisce un riferimento al mondo classico: viene esaltato il nobile compito di Omero, che attraverso il suo canto ha reso immortale nella memoria la storia di Troia.
La poesia diviene così momento essenziale nell’attribuzione di senso alle vicende terrene: in questo modo, Foscolo fonda una sorta di religione umanistica, che ribadisce la sacralità della funzione poetica.

"[...] Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finchè il Sole
risplenderà su le sciagure umane".


Giuseppe Ungaretti: In Memoria, (Il porto sepolto) 

La personalità poetica di Ungaretti risulta assai diversa rispetto a quella di Foscolo, ma, per alcuni versi, ad essa complementare. Egli frequenta gli ambienti delle avanguardie primo-novecentesche, e a Parigi ha modo di approfondire la conoscenza della poesia decadente e simbolista, da Baudelaire a Mallarmè, l’autore di cui, più di ogni altro, si sente l’erede. Per Ungaretti il poeta è una sorta di “sacerdote”, che, attraverso la fulgurazione - l’attimo -, può scendere nella parte più intima dell’uomo e scoprire qualche piccola verità sul mistero della vita. Da qui il titolo della sua prima raccolta di poesie, Il porto sepolto: esso equivale «al segreto della poesia, nascosto nel fondo di un “abisso” nel quale il poeta deve immergersi».
Così come la parte finale dei Sepolcri di Foscolo, anche nel componimento ungarettiano In Memoria emerge a gran voce il tema della funzione eternatrice della poesia: Moammed Sceab ha cercato nella Francia una nuova patria, ma senza trovarla veramente. Precipitando in un’irrimediabile condizione di solitudine esistenziale, egli intravede nel suicidio l’unica soluzione possibile al dolore. Ma la sua morte è tutt’altro che definitiva…:

Locvizza, il 30 settembre 1916.

"Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse".

Il suicidio dell’amico racchiude in qualche modo il destino stesso del poeta, trattandosi di un’analoga ricerca di valori che trova difficoltà a concretizzarsi. Tuttavia, se da un lato Moammed sceglie la via del suicidio, dall’altro Ungaretti si affida alla poesia, in grado di sollecitare la commossa pietà del ricordo. Ed ecco che la poesia assume nuovamente la funzione di estrema custode della memoria: attraverso la scrittura, l’esistenza terrena di Moammed Sceab viene “trasfigurata” e resa eterna dall’ "illuminazione dell’istante di realtà" tipica della scrittura ungarettiana.

M. C.

lunedì 12 gennaio 2015

Il desiderio di amare

Credo che il più grande desiderio connaturato ad ogni uomo sia il desiderio di amare. E' un istinto arcano, puro, incontaminato. E' quanto di più spontaneo l'anima umana possa concepire. Ma al tempo stesso è il desiderio più complesso in assoluto...

Di per se, è "desiderio" ciò che va oltre i limiti del sensibile, e non c'è da meravigliarsi se - come per ogni cosa che va comunemente sotto questa definizione - intercorra una distanza quasi abissale tra il desiderio così come viene concepito dall'anima e le sue forme concrete. Nel caso specifico dell'amare, tra questi due fondamentali termini di paragone si interpone l'altro: una realtà sempre diversa dalla nostra, ma analogamente ricca di bisogni, moti, sentimenti, idee, che inevitabilmente entrano in contatto con la nostra realtà.

Come, dunque, rendere possibile questo incontro? In che modo si può davvero incontrare l'altro senza che i due mondi si compromettano, ma si conoscano e si fondano in un'unione che possa arricchire e non sottrarre?

Perché l'amare sia concretamente esperienza di arricchimento spirituale, è necessario un presupposto di importanza fondamentale, la chiave di volta dello stesso amare: amare se stessi. Ciò significa, in primo luogo, imparare a bastarsi, conseguenza imprescindibile dell'imparare a conoscersi. E' quanto di più arduo ciascuno di noi possa fare, è una storia che ha un inizio ma non sempre una fine: conoscere se stessi può spesso richiedere un'intera vita, e anche in quel caso, forse, non sarebbe abbastanza...

Quello che conta è orientare l'anima sotto il segno di questa lunga ed infaticabile ricerca, la sola che può concedere l'incontro con se stessi e, al tempo stesso, con gli altri.

"L'altra metà da trovare non è una donna, non è un uomo: sei sempre tu. E' l'altra metà di te, la parte sconosciuta alla quale devi dare vita per poterti finalmente incontrare. Per sempre. Questa è la vera unione in grado di liberarci da quel sentimento di solitudine che avvertiamo anche quando stiamo con qualcuno. Come tutti, anche tu non sei un ruolo, sei un miracolo!"




La persistenza della memoria, Salvador Dalì


...E' proprio per questo motivo che molto spesso, quasi inutilmente, avvertiamo una paura smisurata di perdere le persone che amiamo. Siamo spaventati di non riuscire a bastarci, di essere soli senza l'altro... Ma nessuno è mai davvero solo, nessuno è solo finché sa riconoscersi in se stesso prima che nell'altro. Ciò richiede un grande sforzo, richiede grande coraggio, ma è possibile.

E, in secondo luogo, è in un certo senso "superflua" la paura che spesso si ha di perdere chi amiamo, semplicemente perché no, quello che conta non ci lascia mai davvero, e noi stessi non lasciamo mai quello che conta... oltre ogni distanza di spazio e tempo, la verità è che amare è eterno...



"Portare con se l'altro, sempre e ovunque, chiuso in se stessi, e lì vivere con lui. E non solo con uno ma con molti. Accogliere l'altro nel proprio spazio interiore e lì lasciare che fiorisca, dargli un posto dove possa crescere e svilupparsi. Vivere davvero insieme all'altro, anche se non lo si vede per anni, lasciare che l'altro ci continui a vivere dentro e vivere con lui, questa è la cosa essenziale. E così si può continuare a vivere con qualcuno, al riparo dagli eventi esteriori di questa vita. Ciò è una grande responsabilità: è amare"
Etty Hillesum

M. C.

domenica 11 gennaio 2015

La legalità del "noi"

Legalità è oggi una delle parole più utilizzate, di cui molto spesso si abusa tralasciandone il significato assoluto. Ne sentiamo parlare ovunque, quasi in modo retorico, a tal punto da lasciarci ingenuamente sfuggire l'essenza profonda che il termine racchiude.

Nella sua più classica accezione, è intesa come legalità la condizione di ciò che è conforme alle leggi, o che comunque ne rientra nei limiti. Ma sarebbe troppo banale limitarsi a concepire la legalità (così come la libertà) come qualcosa di astratto, come una realtà calata dall'alto e alla quale sottostare semplicemente perché ci viene imposto da un punto di vista strettamente giuridico. Infatti non si tratta soltanto di seguire passivamente un insieme di norme: la legalità è qualcosa che si nutre in primo luogo delle relazioni umane, e che su esse trova le sue basi.

Nel momento in cui l'uomo entra in contatto con i suoi simili è inevitabile quella "tappa obbligata" in cui egli vi si riconosce e comprende l'importanza della sua esistenza in virtù di quella degli altri. D'altronde, non potremmo affatto immaginare di esistere solo per noi stessi, come infinite identità isolate: ciascuna di esse, proprio perché diversa ha istintivamente bisogno delle altre per assumere pienamente significato, e quindi è solo nella collettività che può realizzarsi, completarsi. Ed ecco che l'uomo scopre che non sono esclusivamente i suoi bisogni a legarlo agli altri, ma soprattutto le responsabilità che ha verso di loro, gli effetti delle sue azioni su altri individui.

Proprio per questa ragione penso che si possa comprendere davvero il senso della legalità solo se considerata nella sua dimensione umana, ovvero quella dimensione in cui l'uomo, conoscendo i suoi simili e il mondo in cui vive, inizia ad imparare a distinguere, a fare in prima persona quelle scelte che lo definiscono, che orientano la direzione della sua esistenza: scegliere il bene o il male, l'amore o l'odio, il rispetto o la violenza, la coerenza o la superficialità.

Ciò a cui ogni uomo dovrebbe ambire è scegliere il bene, e non il "suo" bene individuale, ma quel bene corale che si alimenta di innumerevoli piccole buone azioni, di tante scintille di legalità che giorno dopo giorno, malgrado tutte le avversità e tutti i venti sfavorevoli, possano finalmente generare e mantenere vivo il fuoco inarrestabile della giustizia. E questo raro bene collettivo non può realizzarsi che attraverso un forte impegno, un appassionato coinvolgimento e un infaticabile desiderio di legalità da parte di ciascuno di noi, nessuno escluso; ogni individualità è chiamata ad agire per il bene, a sentirsi protagonista della società in cui vive e a cooperare con le altre individualità in vista di quella legalità tanto citata che altro non è e non può essere che la legalità del noi, la legalità del "solo insieme si può".

E se tutti iniziassimo a capire che l'illegalità esiste solo in quanto subdola distorsione della legalità, sarebbe facile e alla portata di chiunque ricorrere al solo antidoto possibile: il coraggio di scegliere il bene.

«Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola», ribadiva instancabilmente un uomo che a questo antidoto ha sacrificato la sua stessa vita...




Paolo Borsellino, Palermo, 19 gennaio 1940 - 19 luglio 1992

M. C.

sabato 10 gennaio 2015

(Ri)comincio da qui

Oggi nasce Caduca libra. Se ho deciso di dare vita a questo blog, è innanzitutto perché ho deciso di dare vita al mio mondo. Nero su bianco. Finalmente. Nonostante tutto. Perché penso non esista ricompensa più bella dell'essere chi vuoi essere, del fare ciò che ami, che altro non è che amare ciò che fai.

Scoprire ciò che ami fare sembrerebbe, a primo impatto, una delle cose più complicate da scoprire... forse perché guardarsi dentro, indagarsi, scandagliare le proprie profondità, lanciarsi senza paracadute nell'oceano dell'anima desta immancabilmente enormi timori... Ma, messi da parte i timori, ciò che ami fare non occorre neanche "scoprirlo", alla fine: è qualcosa che, senza saperlo, ti porti dentro da sempre, è la tua stessa essenza, l'impronta che ti distingue e ti rende unico, irripetibile. Serve solo una buona dose di coraggio per riconoscere chi sei e per cosa sei fatto.

Il mio mondo è la scrittura. Quando scrivo mi sento viva, e non solo semplicemente viva, ma fiera di esserlo. Di essere parte della realtà. Un fragile, minuscolo, infinitesimo frammento di vita. Mi sento libera. Sento entusiasmo, gratitudine, passione. Sento di poter usufruire di qualcosa di veramente immenso: posso comunicare. Posso buttare giù il meglio e il peggio di me, ascoltarlo, combinarlo, frantumarlo, e poi ancora ricombinarlo e renderlo concreto. Posso donare ciò che ho di più caro senza mai perderlo davvero... posso donare me stessa. Perché quello che doni è tuo per la vita, quello che non doni è perso per sempre.

Perché, in fondo, è nel farsi dono che risiede la gioia vera... per questo oggi nasce Caduca libra.

M. C.