La missione eternatrice della poesia
L’aspirazione all’eternità, da sempre insita
nel cuore dell’uomo, non può essere considerata esclusivamente una finalità
letteraria relegata ad un unico e preciso momento storico: si tratta, infatti,
di un sentimento puro che va oltre il tempo, e quindi in grado di accomunare
le sensibilità di uomini vissuti in epoche differenti e spesso distanti tra
loro.
Un esempio lampante è costituito dalla
concezione della poesia condivisa da due tra i più grandi poeti della
letteratura italiana: Ugo Foscolo e Giuseppe Ungaretti. Il primo, visse durante
la facinorosa epoca della Rivoluzione francese; il secondo, affrontò la
dolorosa esperienza del Grande Conflitto.
Ugo Foscolo: Dei sepolcri
Per quanto riguarda la sensibilità poetica di
Foscolo, fondamentale è la nascita a Zante: essa determina la sua formazione
classica, arricchita dalla presenza del Romanticismo. Ma il Classicismo di
Foscolo è soprattutto un culto istintivo
che questi nutre verso l’armonia e la perfezione. Da ciò scaturisce la profonda
sofferenza per i valori che non può vedere realizzati nella sua epoca - a causa
della delusione politica in seguito al Trattato di Campoformio, con cui
Napoleone cedeva la Repubblica di Venezia all’Austria. La più grande
consolazione per il poeta diverrà, così, la poesia: solo la bellezza dell’arte
può permettere di superare i contrasti interiori e allontanare l’uomo dalla
violenza.
L'apoteosi della poesia come mezzo di
immortalità è contenuta nel testo dedicato ai luoghi dei morti. La quarta e
ultima sezione (vv. 213-295) del carme Dei
Sepolcri, infatti, è dedicata al potere eternante legato alla poesia e alle
muse che la ispirano, facendo da custodi dei sepolcri, animandoli di un canto
che «vince di mille secoli il silenzio» (v. 234):
"Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio".
Il poeta si sente chiamato a celebrare le
virtù presenti e antiche con la sua poesia, che assume il compito di
conservarne il ricordo anche dopo che i loro segni materiali sono stati
dispersi dal tempo. Come esempio di questa concezione, Foscolo inserisce un
riferimento al mondo classico: viene esaltato il nobile compito di Omero, che attraverso
il suo canto ha reso immortale nella
memoria la storia di Troia.
La poesia diviene così momento essenziale
nell’attribuzione di senso alle vicende terrene: in questo modo, Foscolo fonda
una sorta di religione umanistica,
che ribadisce la sacralità della funzione poetica.
"[...] Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finchè il Sole
risplenderà su le sciagure
umane".
Giuseppe Ungaretti: In Memoria, (Il porto sepolto)
La personalità poetica di Ungaretti risulta
assai diversa rispetto a quella di Foscolo, ma, per alcuni versi, ad essa complementare.
Egli frequenta gli ambienti delle avanguardie primo-novecentesche, e a Parigi
ha modo di approfondire la conoscenza della poesia decadente e simbolista, da
Baudelaire a Mallarmè, l’autore di cui, più di ogni altro, si sente l’erede.
Per Ungaretti il poeta è una sorta di “sacerdote”, che, attraverso la fulgurazione - l’attimo -, può scendere nella parte più intima dell’uomo e
scoprire qualche piccola verità sul mistero della vita. Da qui il titolo della
sua prima raccolta di poesie, Il porto
sepolto: esso equivale «al segreto
della poesia, nascosto nel fondo di un “abisso” nel quale il poeta deve
immergersi».
Così come la parte finale dei Sepolcri di Foscolo, anche nel
componimento ungarettiano In Memoria emerge a gran voce il tema della funzione eternatrice della poesia: Moammed Sceab ha
cercato nella Francia una nuova patria, ma senza trovarla veramente.
Precipitando in un’irrimediabile condizione di solitudine esistenziale, egli
intravede nel suicidio l’unica soluzione possibile al dolore. Ma la sua morte è
tutt’altro che definitiva…:
Locvizza, il 30 settembre 1916.
"Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse".
Il suicidio dell’amico racchiude in qualche
modo il destino stesso del poeta, trattandosi di un’analoga ricerca di valori
che trova difficoltà a concretizzarsi. Tuttavia, se da un lato Moammed sceglie
la via del suicidio, dall’altro Ungaretti si affida alla poesia, in grado di
sollecitare la commossa pietà del ricordo. Ed ecco che la poesia assume nuovamente
la funzione di estrema custode della
memoria: attraverso la scrittura, l’esistenza terrena di Moammed Sceab
viene “trasfigurata” e resa eterna dall’ "illuminazione
dell’istante di realtà" tipica della scrittura ungarettiana.
M. C.
M. C.
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